Cartocci e fagotti
Castagnaccio
Fiere e mercati
Il bifolco
Il latte appena munto
Il lesso non ci piaceva
Il letto
Il pane fatto in casa
La pasta fatta in casa
La porchetta
La torta sotto la brace a casa di Leontina
Le ciacciole
Le schiacciate
Le tagliatelle della nonna Ada
Mercati di Firenze
Panino con il lampredotto
Pranzo della battitura
Quando s'ammazzava il maiale
Tagliatelle con il sugo di coniglio
Venerdì baccalà


Il bifolco

Ogni famiglia contadina era un microcosmo nel quale ogni persona, e di persone ce n'erano tante, aveva il suo ruolo ed i suoi compiti specifici che variavano in base all'età, quindi all'esperienza ed alla capacità di ciascuno.
Insomma, come in una azienda si cerca la migliore organizzazione e si attribuisce a ciascuno compiti appropriati affinché possa dare il meglio di se stesso, così nelle grandi famiglie contadine senza dover ricorrere alle società di consulenza d'organizzazione, a ciascuno, con la massima naturalità, era attribuito il suo compito.
Il lavoro del quale ora cercherò di raccontarvi è quello del "bifolco".
Oggi questo termine viene usato come epiteto che si attribuisce a qualcuno per definirlo grezzo, persona dai modi e dagli atteggiamenti rudi, ma secondo me si fa di questa parola un uso improprio.
Allora vi chiederete chi è il "bifolco". Il vocabolario Zingarelli, a questo vocabolo attribuisce il seguente significato; "Chi ara la terra - uomo grossolano, grezzo".
Sì, il "bifolco" era la persona che arava la terra con le bestie da lavoro, (i buoi o le vacche), ma non arava la terra e basta, si occupava del bestiame da lavoro, lo accudiva e lo impiegava per tutti i lavori di aratura, di trasporto, di semina, insomma era il moderno trattorista.
Fino ai primi anni sessanta i trattori non erano molto diffusi ed in campagna i contadini facevano quasi tutto con le bestie.
Il "bifolco" era un personaggio in grado di stabilire con le bestie da lavoro un rapporto particolare, riusciva a fargli fare tutto quello che riteneva opportuno, era insomma un bravo domatore in quanto le abituava ad eseguire i suoi comandi, le bestie percepivano la sua presenza e bastava un suo cenno per tornare a posto.
Vi domanderete quali erano questi lavori, quali erano gli attrezzi e penso sarete curiosi di conoscere qualcuno di questi personaggi che vivono ancora nei miei ricordi.
Vi racconterò dell'aratura a "trapelo" fatta cioè con due paia di bestie, buoi o vacche, dallo zio Pompeo che qualche volta andavo ad aiutare.
L'aratura si faceva d'estate in agosto, quando il raccolto era ormai sistemato. Le ore del giorno dedicate a questo lavoro particolarmente faticoso per le bestie erano quelle ancora fresche del mattino.
Si partiva al levare del sole, si "attaccavano le bestie" preparandole con il giogo ed i paiali; la preparazione della bestie con i finimenti era un vero rito, ancora nella stalla si applicava il morso al quale era attaccato il paiale che veniva incrociato nelle corna dell'animale. Il paiale era una fune robusta e sottile alla estremità della quale era legato il morso "la morsala" che doveva essere inserita nel naso incrociando la fune nelle corna a formare una specie di tirante.
Veniva poi messo il giogo al centro del quale si trovava il "roccio", un anello di legno che avrebbe poi permesso di collegare la "bura", il legno che costituiva il tiro, l'elemento che consentiva di collegare il giogo con l'attrezzo da tirare.
Le bestie non potevano essere utilizzate a caso , ciascuna aveva la sua mano, c'era quindi la "mandritta", la destra, che nel tiro stava sempre a destra e la "mancina", la sinistra, che era abituata a tenere sempre la posizione di sinistra.
Compiuti i necessari preparativi ci si avviava verso il campo da arare attaccando le bestie all'aratro.
Raggiunto il campo si iniziava il lavoro, le due paia di vacche si disponevano una di seguito all'altra, quella dietro attaccata all'aratro con la "bura" fissa, quella davanti con una lunga catena; e così si cominciava l'aratura andando da una estremità all'altra del campo, si cominciava dal centro se il campo doveva essere "colmato" o dai lati se si voleva creare al centro un solco "spaccato". Ogni volta che si arrivava al termine del campo si staccava e si predisponeva per tornare nella direzione opposta.
Le bestie non avevano mai lo stesso carico, quella che si trovava a camminare nel solco, la destra, quindi in posizione più bassa doveva sopportare un carico ben maggiore.
Ed ecco che qui interviene la bravura e la genialità dello zio Pompeo, un uomo che con le sue bestie ci sapeva veramente fare, praticamente ci parlava, riconoscevano la sua voce.
Come dicevo prima ciascun animale impara a stare in un verso diventando quindi "mancina" o "mandritta", mio zio Pompeo era riuscito a far superare l'abitudine riuscendo ad invertire le bestie facendogli assumere ora la posizione "mancina" ora la posizione "mandritta"; le sue bestie , quando aravano, dividevano la fatica in modo equo perché erano capaci di stare sia nel solco che nel campo.
In campagna per dire a qualcuno di stare alle regole si dice "stai al solco".
Quando il sole cominciava a farsi sentire era l'ora di staccare l'aratro, tornare a casa, rimettere le bestie nella stalla e godersi quindi le tagliatelle della nonna Ada alzatasi all'alba anche lei per preparaci il pranzo.

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